Il mercato mostra la fine di un modo di intendere la moda, i rischi dei nostri produttori.
Il prezzo e il buon contenuto moda di prodotti usciti dai laboratori di Prato è all’origine del successo dei banchi dei Cinesi. La qualità intrinseca difetta, ma sta migliorando.
Non è un problema se il capo dura poco: fa moda e a 25 euro si usa e si cambia.
CARPI – Per rintracciare alcune delle ragioni che hanno decretato la crisi del distretto tessile di Carpi, inteso almeno come apparato produttivo, quello che si identifica con subfornitura e filiera tessile, non c’è bisogno di andare molto lontano. Si trovano facilmente proprio a Carpi, il giovedì mattina e in quel luogo simbolo della città che è la piazza Martiri. È lì, sulle bancarelle del mercato, che si vede come stiano funzionando le cose nel mondo della moda e come Carpi ne esca penalizzata. I banchi più assediati dalla gente sono quelli dei capi di abbigliamento – si parla esclusivamente della donna – gestiti da Cinesi, almeno per una certa tipologia di vestiario. Come si potrebbe definire? E’ la categoria dei Cinesi che vendono capi a prezzi super accessibili, raramente superiori ai 25 o 28 euro, ma non privi di contenuto moda, anzi, decisamente orientati alla moda. Gonne plissettate, pantaloni lunghi e abiti in viscosa a righe verticali che fanno tanto trendy nella primavera estate di quest’anno, t shirt con stampe simpatiche e abbastanza elaborate, giacche in jersey, pantaloni in cotone, jeans trattati, capi in pelle scamosciata foderate in jersey, camiciole in lino… Le acquirenti sono attratte da questa abbondanza a buon mercato di originalità creativa che proprio originale non è, visto che ricalca le cose che si vedono nelle vetrine più presti- giose e a ben altri prezzi. Solo che qui i marchi sono Charlotte, Fashion, Chiara, Zelante, Be, Puro Lino, Dania Moda, New fashion… Tutti dei perfetti sconosciuti.
In compenso, abbondano i cartellini “prodotto italiano”, “made in Italy”, con cordicelle tricolori. Il made in Italy, insomma, è ampiamente conclamato da tutte le parti e non si può negare che lo sia se è vero che che quando chiediamo alle commesse cinesi dove li vadano ad acquistare, prima rispondono semplicemente “lontano” e poi alla fine salta sempre fuori “Prato”, ma non è chiaro se la città toscana sia la fonte delle produzioni o solo il loro magaz- zino o tutte e due le cose. Prato lavora e Carpi arranca, dicevano i subfornitori del forum di qualche settimana fa su Voce: e qui si capisce anche perché. Ci potranno pure essere molta viscosa e poliestere fino al 95 per cento nei filati utilizzati per le confezioni, e tessuti importati dalla Cina o prodotti da Cinesi a Napoli a milioni di metri quadrati: ma l’effetto moda, se non nella sostanza, almeno per l’occhio, quello c’è. E calamita la clientela femminile, giovane, meno giovane e di mezza età. Certamente i capi – magari usciti da aziende con ampie lacune in fatto di rispetto di norme, tributi e fiscalità – non hanno le caratteristiche di qualità, le finiture e le prestazioni di durata di quelli con la stessa immagine venduti nei negozi. Ma le donne che li acqui- stano potranno sempre consolarsi pensando di non aver speso più di 40 euro complessivamente per farsi un completino trendy o per comprarsene cinque, di pantaloni rigati come vanno adesso, con la stessa cifra con cui in negozio ne compri uno. Puro fast fashion, la stessa filosofia di Zara e ora di Primark che esce con dei prezzi che nessuno sa come faccia: con la differenza che i due colossi, lo spagnolo ormai consolidato e l’irlandese appena sbarcato in Italia, la moda veloce e a poco prezzo la inventano, mentre qui, nei banchi che funzionano un po’ come una vetrina di Prato, il più delle volte la imitano. Anche se, va riconosciuto, Cinesi con alle spalle venti, trent’anni di lavoro in Italia, sbaglieranno pure i colori della bandiera italiana nelle etichette ma qualche cosa dimostrano di averlo imparato in fatto di immagine e tendenze.(…)
E poi ci sono gli Italiani. O meglio, i banchi di quelli, fra i connazionali, che hanno deciso di seguire la via del prezzo stracciatissimo, ma evidentemente non hanno gli stessi canali di rifornimento dei concorrenti cinesi. Qui gli abiti appesi sono chiaramente provenienti da stock e vecchie giacenze, trasmettono un’immagine di povertà e, soprattutto, appaiono fuori moda. E fra gli stender le clienti sono davvero rare.
Conclusione: la moda che si vede al mercato, quella che fa numero quanto a consumatori, è un fast fashion che soddisfa l’esigenza di uniformarsi alle tendenze del momento, ma le declina a prezzi e qualità intrinseche enormemente inferiori. Sono prezzi che consentono di abbigliarsi rimanendo aggiornati, ma anche di indirizzare le (poche) risorse rimaste nelle tasche della gente verso altri generi di consumo: il ristorante e il cibo in genere, gli smartphone e i dispositivi internet indossabili, l’automobile, l’assistenza agli anziani, per citare gli “articoli” che secondo l’osservatorio Findomestic stanno andando di più in questo scorcio di 2016. E non sono buone notizie, né per la moda nel senso più pregnante del termine, né per il prodotto di Carpi. (F.M. )
VOCE , 19 maggio 2016