L’ultima arrivata è la catena irlandese ma sono molti i grandi brand stranieri che vendono vestiti a prezzi bassissimi riscuotendo enorme successo. Ma il prezzo del cartellino è sinonimo di scarsa qualità?
Primark, la catena di abbigliamento low cost irlandese, ha aperto in Italia da due mesi e il negozio all’interno del centro commerciale di Arese (Milano) è già stato meta di circa 2 milioni di clienti. Il motivo di questo successo? Il fatto che tra gli scaffali si possono trovare magliette a 5 euro, jeans a 11 e pigiami a 9.
Primark è solo l’ultima delle grandi catene di abbigliamento low cost straniere che sono arrivate nel nostro Paese riscuotendo enorme successo. Oltre al colosso irlandese ci sono infatti anche H&M, Pinko, Bershka, Pull&Bear e, a un livello un po’ superiore, Zara.
Ma come fanno questi marchi a tenere i prezzi così bassi? Su cosa risparmiano? Ma soprattutto: vestiti così economici sono comunque sicuri per il consumatore? Abbiamo cercato di rispondere a queste domande con l’aiuto di due esperti: Stefania Saviolo, responsabile del knowledge center fashion di SDA Bocconi, e Mauro Rossetti, direttore dell’Associazione tessile e salute, una sorta di osservatorio tecnico del ministero della Salute per la tutela dei consumatori.
Grandi quantità, poco creatività e commessi a basso costo. Partiamo mettendo da parte un pregiudizio fuorviante: il prezzo inferiore non dipende dal tipo di tessuto impiegato. “Spesso il cotone delle magliette di queste catene è lo stesso che usano i grandi marchi della moda”, rivela Saviolo. Ciò che incide davvero sul prezzo è invece il fatto che Primark e gli altri applicano il principio dell’economia di scala: grandi volumi a basso costo. “Questi negozi – continua la docente – funzionano come un supermarket. La loro leva è il grande traffico di merce che gli permette, appunto, di tenere bassa la cifra sul cartellino”. E questo risparmio che si ottiene comprando 1000 invece di 100 si riflette su tutta la catena del valore: dall’acquisto del tessuto fino al trasporto. “Inoltre, se l’ordine supera certi volumi spesso le fabbriche produttrici applicano sconti ulteriori”, aggiunge l’esperta. Ma a far sì che una canottiera costi solo 2 euro e 50 è anche il modello di business di queste catene che non prevede campagne pubblicitarie, né l’utilizzo di testimonial famosi. Inoltre non è prevista la fase di designer. “Manca cioè quella fase creativa – prosegue Saviolo – che alza i costi e che dall’altro lato comporta ritardi e inefficienze che pesano sul processo produttivo e quindi sul prezzo finale”. Queste catene funzionano invece con un modello di business che si limita ad interpretare tendenze consolidate senza inventare nulla di nuovo.
Infine a condizionare il prezzo contribuisce la scelta di produrre in Paesi dove il costo del lavoro è molto basso e quella di utilizzare personale in outsourcing o comunque in numero limitato rispetto ai commessi che ci sono invece nei negozi tradizionali. Il personale serve infatti solo per mobilitare la merce che arriva ogni 48 ore e non per servire i clienti. “Spesso inoltre i dipendenti vengono pagati poco e anche questo contribuisce al livello del costo finale”, conclude Saviolo.
La qualità: attenzione alle tinture e all’etichetta. La qualità di questi abiti è di sicuro più bassa di quella dei cosiddetti marchi premium. Tuttavia rientra in uno standard internazionale che consente al cliente di avere un prodotto che è proporzionale a quanto gli si chiede di pagarlo. Ma ciò non costituisce un problema per la salute del consumatore. “Un tema più delicato è invece quello delle tinture e quindi della cosiddetta fase di finissaggio”, rivela Saviolo.
Se un capo di abbigliamento o un prodotto di pelletteria vengono prodotti in Europa, l’azienda che lo fabbrica deve rispettare tutta una serie di regole che riguardano il tipo di tintura, il procedimento di colorazione e anche la fase di smaltimento dei rifiuti di questo processo. E lo scopo di queste norme è sia garantire la salute del consumatore, sia quella dell’ambiente. Tutto ciò non vale però quando si produce in paesi extra europei come ad esempio l’India che è oggi il principale produttore mondiale di coloranti per abbigliamento.
Attenzione: ciò non equivale a dire che tra prodotto low cost e problemi di salute ci sia per forza un legame. Spesso infatti i prodotti “incriminati” non hanno alcun brand. Eppure il consumatore dovrebbe cercare di prestare attenzione a cosa indossa, soprattutto quando quella gonna o quella borsa sono state fabbricate in Paesi come India e Cina e in generale nell’est asiatico. A dimostrarlo sono i dati raccolti dall’Associazione tessile e salute.
“Nel 2013 – racconta Rossetti – abbiamo consegnato alla Commissione europea uno studio nazionale (Pdf), realizzato in associazione con alcune cliniche dermatologiche, da cui è emerso che il 7% delle dermatiti da contatto sono dovute a ciò che ci mettiamo addosso”. Inoltre, secondo le statistiche realizzate negli ultimi sei anni dai nuclei antisofisticazioni e sanità dei carabinieri (Nas), i prodotti trattati con sostanze chimiche non a norma sono quasi esclusivamente di importazione. “Il problema di fondo è che il mercato europeo non prevede l’obbligatorietà della dichiarazione d’origine di un prodotto e ciò rende molto difficile garantire la tracciabilità dei vestiti”, rivela Rossetti.
Aguzzare la vista… e l’olfatto. Come può fare perciò il consumatore per orientarsi? La prima cosa da verificare è la presenza della cosiddetta “etichetta di composizione fibrosa”: quella in cui sono riportare le percentuale di tutte le fibre che compongono il capo e i consigli di lavaggio. “L’etichetta è obbligatoria – spiega l’espero – anche per i vestiti di importazione quindi il cliente dovrebbe prima di tutto verificare che ci sia. In caso contrario è meglio non acquistare quel vestito perché è il campanello di allarme che c’è qualcosa che non va”.
Altra accortezza, in caso di dubbi sulla sicurezza di quel vestito o sulla veridicità dell’etichetta (secondo i dati dell’associazione il 30% delle etichetta riporta una composizione sbagliata) è quella di evitare di acquistare abiti di colore scuro perché più allergizzanti, e di annusare il prodotto. “Odori sgradevoli o acri potrebbero essere il segnale di coloranti economici o a base di sostanze chimiche nocive”, avverte Rossi. (Silvia Pasqualotto)