Il Sole 24Ore, 29.11.15
«Nel sistema manifatturiero emiliano-romagnolo è pienamente visibile uno dei più potenti concetti della teoria economica che ha resistito a decenni di crisi. Mi riferisco alla “distruzione creativa” di Schumpeter. Che qui ha prodotto e sta producendo i suoi effetti». Franco Mosconi, 53 anni, docente di Economia industriale all’Università di Parma, è un profondo conoscitore del sistema e del tessuto imprenditoriale emiliano-romagnolo. Nel 2012 ha pubblicato “La metamorfosi del Modello emiliano. L’Emilia-Romagna e i distretti industriali che cambiano” (Il Mulino). Un modello fatto di distretti, andato poi oltre i distretti puntando sulle filiere e sui territori, ma che ha reso questa regione un epifenomeno del manifatturiero in grado di imporsi in passato e ancora oggi in grado di avanzare in un contesto globalizzato. «Ci sono specializzazioni nuove che sono emerse e altre che stanno emergendo».
Quali sono?
Il Rapporto 2015 della Banca d’Italia sull’economia regionale ha preso a esame il periodo 2007-2013. Insomma, gli anni della crisi in cui la struttura del manifatturiero emiliano-romagnolo si è modificata. Chimica e farmaceutica, per esempio, hanno aumentato il loro peso. Faccio presente che si tratta di settori estremamente innovativi e, se guardiamo alla farmaceutica, in Emilia-Romagna c’è un leader di settore, mi riferisco alla Chiesi, che è però solo la punta di un iceberg in un contesto in evoluzione. Penso ad esempio al biomedicale.
Il distretto di Mirandola ha dovuto fare i conti con il terremoto del 2012.
Ma si è ripreso e rafforzato, virando anche verso una specializzazione nella cura delle malattie cardiovascolari e andando quindi oltre i più semplici dispositivi medici. Ma poi, quanto a nuove specializzazioni anche in quelli che sono considerati cluster tradizionali, c’è ad esempio il distretto delle piastrelle di Sassuolo con multinazionali come Mapei e Kerakoll che hanno spinto su prodotti innovativi ed ecosostenibili. Poi c’è la “Wellness Valley” cresciuta attorno alla Technogym, senza dimenticare la meccatronica, il packaging, l’automotive: tutte specializzazioni che mettono insieme meccanica, elettronica e It.
L’Emilia-Romagna resisterà all’avvento dell’industria «4.0»?
L’Emilia-Romagna è già forte nella manifattura a più elevato valore aggiunto. Fra Bologna e Modena è nato un vero e proprio distretto dell’Ict che il Monitor dei distretti di Intesa Sanpaolo censisce fra i nuovi poli tecnologici italiani. A Parma c’è poi il noto spin off universitario VisLab che sta studiando l’auto-robot ed è stato acquisito dall’americana Albarella. E gli esempi potrebbero continuare. In generale è un sistema che ha avuto fortuna in passato e può resistere anche in futuro.
Grazie a cosa?
C’è senz’altro un buon equilibrio fra piccole e medie imprese, spesso raggruppate in distretti, da una parte e grandi imprese dall’altra. Per fare investimenti in ricerca e sviluppo servono spalle larghe, ma i vantaggi poi si trasferiscono a tutto il sistema. All’interno del Regional Competitiveness Index, su 262 regioni d’Europa la Ue ha messo la Lombardia al 128esimo posto e l’Emilia-Romagna al 141esimo. Tuttavia uno degli indicatori dove l’Emilia-Romagna balza intorno alla 50esima posizione è quello che la Ue chiama “business sofistication”: ci sono attività sia manifatturiere, sia di servizi alle imprese, ad alto valore aggiunto che fanno la differenza. Unisco a tutto ciò un ulteriore aspetto: quello degli investimenti diretti esteri. L’Emilia-Romagna è oggi un crocevia strategico per gli Ide italiani sia in entrata, sia in uscita.
Siamo terreno di conquista. Lo ritiene un buon segnale?
Gli Ide in entrata sono un indicatore di competitività positivo, sinonimo di un’economia che ha talenti e di una società aperta. Vuol dire anche che vi è capitale umano di qualità e che all’estero, Germania, Stati Uniti, Asia, si ha fiducia in un territorio che esprime cultura d’impresa.