Il modello Emiliano

La metamorfosi del Modello Emiliano

Il caso di Carpi

Quale futuro si prospetta per i distretti manifatturieri?
Il dibattito che è andato avanti per lunghi anni tra due scuole di pensiero opposte – ovvero, chi ha intonato il de profundis sui distretti e le produzioni tradizionali e chi ritiene che i distretti possano permettersi il lusso di rimanere uguali a se stessi – può dirsi, oggi, superato da una sorta di terza via. Quest’ultima, infatti, ne sottolinea la loro «metamorfosi».

Beninteso, il distretto continuerà ad avere fra i suoi elementi costitutivi la vitalità di tante piccole imprese legate fra di loro da rapporti, al tempo stesso, di cooperazione e competizione. Tuttavia sta crescendo – e per molti versi è già cresciuta – una nuova élite di medie imprese industriali (le cosiddette multinazionali tascabili).

Si tratta di aziende che hanno raggiunto una certa massa critica in termini di fatturato e occupati e che si caratterizzano per un assetto proprietario autonomo. Dal punto di vista delle strategie d’impresa, fra le caratteristiche peculiari del loro modello vincente emerge l’«innovazione di prodotto» e, più in generale, emergono tutte le attività immateriali che si collocano a monte e a valle del processo produttivo (R&S, design, marchio, servizio al cliente, e così via).

Da sempre, il Distretto di Carpi ha incarnato uno dei grandi vantaggi competitivi italiani: la flessibilità della piccola e media impresa.
Dalla fase eroica di sviluppo del modello distrettuale (pensiamo al decennio ’80 del secolo scorso), in verità, moltissime cose nell’economia italiana ed internazionale sono mutate. Pensiamo ai nuovi protagonisti asiatici che si sono affacciati sullo scenario globale, e alla rivoluzione tecnologica (ICT) che ha trasformato profondamente sia i modi di produrre che di consumare. Questo ha generato, dappertutto nel mondo, una riflessione profonda sul futuro dell’industria manifatturiera.

Un punto però merita di essere messo in risalto: la manifattura non è cosa del passato, perché proprio da essa proviene la maggior parte dell’attività di R&S, di innovazioni e di export. Che Italia e che Emilia-Romagna sarebbero senza l’industria manifatturiera e le produzioni del Made in Italy, dalla moda alla meccanica di precisione, dalle piastrelle all’alimentare?

La manifattura poi – si badi bene – non conta solo per il suo contributo diretto al Pil, all’occupazione, all’attività di ricerca e all’export. C’è una sorta di effetto moltiplicatore che dall’industria va a influenzare – positivamente – tutte quelle attività terziarie di supporto alla produzione (i trasporti e la logistica, la formazione delle risorse umane, la pubblicità, la finanza, etc.).

Viviamo, oggi, un’epoca di crescente contaminazione fra l’industria ad alto valore aggiunto e i servizi avanzati. Nel distretto di Carpi si trova un buon concentrato di aziende che si sono evolute specializzandosi in questo servizi, parallelamente all’evoluzione della filiera produttiva. E margini di miglioramento esistono sotto entrambi i profili, a condizione che ci si renda completamente conto che le risorse fondamentali sulle quali investire sono i giovani talenti.

Un ultimo punto. Oggi, dopo la gravissima crisi finanziaria mondiale, il tema dell’economia reale ha riguadagnato posizioni nell’agenda politica di tutti i Paesi dell’Occidente industrializzato, e la Germania è tornata a rappresentare il modello a cui guardare. E’ una lezione anche per noi? Credo di sì.

Difatti, ciò che si dice del capitalismo renano – ossia,

una economia aperta con una robusta base industriale, il cui prodotto interno lordo è per circa un terzo destinato all’esportazione, un’economia in cui il welfare e lo stato giocano un ruolo dominante

(per dirla con le parole del Prof. Siebert, già consigliere economico del Cancelliere Kohl) – può descrivere in maniera assai accurata anche la nostra realtà.

Definisce, insomma, quello che per molti decenni è stato chiamato il Modello Emiliano ovvero un’ organizzazione della vita economica che ha saputo combinare efficienza ed equità, crescita e coesione sociale. E’ giusto ricordare che, nonostante i sommovimenti nell’economia internazionale dianzi ricordati (l’ascesa dei BRIC e non solo), quella italiana resta la seconda manifattura d’Europa dopo quella tedesca. La nostra regione, insieme ad altre quattro regioni italiane, fa parte del ristretto novero delle 18 principali regioni manifatturiere europee, cinque delle quali sono tedesche.

Ma non si può comprendere appieno il «modello emiliano» se non si tiene conto del senso di comunità, dello spirito comunitario, che qui – in questa nostra terra – è più forte che altrove. E’ quel capitale sociale – quel clima di fiducia reciproca e di attitudine a cooperare – ammirato, quando ci vengono a visitare, anche dagli americani: un capitale che ha determinato la spinta per affrontare il cambiamento. Verso quale obiettivo?
E’ la corsa verso la qualità (intesa in senso lato): nelle produzioni, nella civile convivenza, nella cura dei giovani.
Senza questa corsa non c’è futuro, e molti dei nostri imprenditori sono fra i primi ad averlo compreso.

Franco Mosconi
Università di Parma, Dipartimento di Economia